Il paradosso del tempio infinito.

Francesco D’Isa

Per apprezzare un paradosso ci si deve entrare, o meglio, cascare. Dato che il nostro gioco mentale implica la presenza di un tempio, è possibile giocare un po’ con l’immaginazione.
Apri gli occhi e ti trovi in una pianura sassosa. È circa mezzogiorno, il sole brucia la pelle e il suolo. Non molto lontano scorgi una muraglia bianca, che sembra superare il cielo in altezza. Ti avvicini e scopri che quel che credevi essere un muro è in realtà una fila sterminata di colonne, che si estende senza fine sia per lunghezza che per altezza. La curiosità ti spinge in avanti e dopo un breve tragitto ti trovi ai piedi della gradinata. Alzi lo sguardo e scopri che le colonne, oltre che innumerevoli, sono anche altissime, tanto che non puoi vederne la cima. Non ti è difficile immaginare che il tempio sia composto da infinite colonne [1], ma ipotizzare che queste siano anche infinitamente alte ti pone davanti a un interrogativo: «Hanno un capitello?». Se lo avessero sarebbero finite, se non lo avessero non sarebbero colonne. (E inoltre: Se ti arrampicassi in eterno su di una colonna non sfioreresti il capitello nemmeno da lontano, ma se lo facessi a una velocità infinita, lo raggiungeresti?).

Questo, in breve, è l’enigma. Le poche righe che seguono servono invece a non affrettare i tempi, permetterti di rifletterci e cascare nell’ennesima trappola dell’infinito. D’altra parte si tratta di un’idea che invischia da sempre le menti; Borges scriveva che è un concetto che corrompe e altera tutti gli altri, Hilbert che: il chiarimento definitivo della natura dell’infinito […] è necessario per la dignità stessa dell’intelletto umano e questo per citare soltanto due tra i molti che sono caduti nel tranello.

Giulio Paolini, Early Dynastic, 1971

La questione di cui sopra – adesso è passato abbastanza tempo – ha una specie di “soluzione”. In un tempio dalle infinite colonne, infatti, si considera la colonna come un’unità indivisibile, mentre se pensiamo a una colonna infinitamente alta la consideriamo come l’insieme delle sue parti, in cui a essere interminabile è solo il fusto. La contraddizione si genera perché la colonna è finita per definizione e oltre al fusto possiede una base e un capitello [2]. In un certo senso si potrebbe definire “una questione di prospettiva”; il capitello è irraggiungibile “all’interno” della colonna, ma nel tempio composto da colonne di altezza infinita la colonna è soltanto uno degli (infiniti) elementi, il cui nuovo limite è il tempio.

Si propone un problema simile al paradosso di Zenone, che si può applicare, pena il mal di testa, a una grande varietà di cose. Per restare nella metafora architettonica si può considerare, ad esempio, un mattone come l’unità di costruzione di un muro; se il mattone è divisibile in un mezzo mattone però, e poi in metà di mezzo mattone, metà di metà di mezzo mattone e così via, all’infinito, il muro sarà composto da mattoni inesistenti. Cadere o meno in questo abisso è anche una nostra responsabilità, perché siamo noi a “chiudere o aprire” l’unità di partenza, anche se infinita: mattone, colonna, tempio…


Una delle trappole del tempio, infatti, risiede nella differenza tra continuo e discreto, in cui sarebbe meglio non addentrarsi senza la compagnia di un matematico. In una definizione intuitiva ma informale, un oggetto è discreto se è costituito da elementi isolati, cioè non contigui tra loro, mentre è continuo se contiene infiniti elementi e se tra questi non vi sono spazi vuoti. Ci sono così infiniti continui (come i numeri reali, che hanno infiniti numeri tra ogni loro elemento) e infiniti discreti (come i numeri naturali, dove, per fare un esempio, tra 0 e 1 non ci sono altri numeri).

Un oggetto finito, però, come il passo di Zenone, un mattone, una colonna o un numero, che sia o meno suddivisibile in infinite unità, è un’unità a sua volta e in quanto tale è isolato, discreto. Come dire, la nostra prospettiva sull’infinito è finita, e ogniqualvolta estraiamo una goccia da questo mare si “discretizza”. È dunque da un punto di vista discreto, che, mediante una qualche regola, da un infinito si ottiene un passo, un mattone, una colonna o il numero 12,9297.

Insomma, sembra che ci siano molti modi per dilettarsi con l’infinito e nessuno per catturarlo, in quanto i limiti li sfugge per definizione. D’altra parte non c’è colonna senza capitello, numeri senza ∞, limiti senza illimitato e via dicendo, dunque è difficile far finta di nulla. Di certo chi cerca un “infinito autentico”, anche se ha l’abilità di un Hilbert, un Leibniz o un Cantor [3] (che ci è andato più vicino di tutti), dovrà ammettere che questo non sarà mai “capitellabile”.

Maerchenwald, di Michael Hansmeyer

Le obiezioni di Guenon – che seguendo la tradizione scolastica vorrebbe sostituire il concetto di indefinito a quello di infinito – non sono facili da accantonare, sebbene la sua proposta sia più che altro linguistica, perché sposta i molti problemi dell’infinito sulle spalle di un neonato indefinito (mia la traduzione):

Laddove il finito presuppone necessariamente l’infinito – poiché quest’ultimo comprende e racchiude tutte le possibilità – l’indefinito, al contrario, procede dal finito, di cui in realtà è soltanto uno sviluppo e al quale è pertanto è sempre riducibile.
Anche se si scioglie il paradosso, dunque, il problema rimane. Si potrebbe (metaforicamente) pensare all’infinito per eccellenza come a un “insieme aperto”, sebbene il concetto di insieme e quello di aperto siano contraddittori; ma d’altra parte che l’infinito funga da coincidentia oppositorum non stupisce più di tanto.
Qualora tu sia ancora nel tempio, potresti avere un po’ paura; non vedi un’uscita né un punto di riferimento, anzi, nel cercare la strada scopri nuove e illimitate divergenze, persino dove il terreno sembra più solido. Non preoccuparti, prendi fiato, siediti alla base di una colonna. Nell’infinito trovare la strada coincide con accorgersi di non essersi persi.

Note

[1] In realtà anche qua c’è qualche problema, perché se il tempio è infinito ci dovresti sempre essere dentro…
[2]  a dirla tutta, infatti, anche la base dovrebbe essere “introvabile”.
[3] per trasporre cantor nel tempio, si potrebbe forse dire che, metaforicamente, il tempio è cardinalmente superiore alla colonna, perché è un infinito che contiene infiniti altri infiniti (le colonne). Al che si potrebbe giustamente obbiettare che il tempio è fatto di colonne infinitamente alte ma “discrete”, con spazi fra una colonna e l’altra, cosa che rende il tempio in orizzontale (discreto) diverso dal tempio in verticale (continuo). Eppure, almeno nella metafora del tempio, mi sembra che sia possibile spostarsi da “continuo” a “discreto” e viceversa in base ai parametri di partenza, ovvero al proprio atteggiamento nei confronti del paradosso di Zenone. La colonna è continua se la considero composta di materia infinitamente divisibile, mentre è discreta se la considero composta da, per esempio, “blocchi di marmi rotondi l’uno sull’altro”, o anche “molecole di marmo” ecc…
Il presente articolo era già comparso su L’Indiscreto.

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