Intervista di Vito Ancona a Virgilio Sieni
La seguente conversazione tra Vito Ancona e Virgilio Sieni si è svolta il 5 agosto 2021 a Gibellina, nella stessa giornata in cui Paradise Now, ultima creazione del coreografo, ha debuttato sul Cretto di Gibellina. La conversazione vuole far emergere i punti di contatto tra la pratica coreografica di Virgilio Sieni e l’opera di Alberto Burri.
VA: In questi giorni stai lavorando con la comunità locale alla produzione di Paradise Now per il Cretto di Gibellina. Alberto Burri ebbe un rapporto complicato con la scenografia, o meglio con la scena teatrale, la sfiorò soltanto collateralmente e con molta cautela. Come è stato invece per te l’impatto con il Cretto di Burri?
VS: L’opera più che realizzata per il Cretto, è pensata per una città scomparsa. Dunque è chiaro che a Città di Castello, negli Ex seccatoi del tabacco, ci sono degli elementi che richiamano la scenografia, però l’opera di Burri non è qualificabile come una scenografia o come un abbellimento urbanistico e della città. È qualcosa di inedito, mai esistito prima, che ha a che fare con la grande tradizione della Land Art e gli artisti che andavano negli spazi aperti o nel deserto e lavoravano sul preistorico, su un qualcosa di preesistente e ovviamente non tangibile, come una città crollata. È un lavoro di quel tipo lì…
VA: Attraverso la materia Burri raggiunge l’immateriale, nel senso che i suoi lavori non hanno dei titoli (Legni, Ferri, Cretti) però attraverso questo mostrare la materia nuda e cruda, in realtà la eleva, anche se si tratta della materia più povera, come con i Sacchi.
VS: Però il Cretto è un’opera estremamente narrativa perché riprende le sembianze della città scomparsa: le lontananze, le discese, i vicoli, la distribuzione per piccoli lotti.. Quindi è estremamente narrativa e allo stesso tempo non lo è perché non vuole scimmiottare in forma didascalica la città che era e quindi c’è questa restituzione nel tempo di una traccia, un’impronta di qualcosa. È un’opera molto complessa, molto ambigua..
VA: Anche criticatissima..
VS: L’unica cosa che si può dire è che non ci si possono fare gli spettacoli, dunque la mia idea è stata quella di portare un’esperienza di persone che si incontrano per un po’ di giorni e capire se ancora c’è la possibilità di creare in poco tempo un’idea di comunità, e dunque abitare ciascuna porzione di Cretto in maniera molto densa, esattamente come era la città di Gibellina dove le case erano molto più vicine, non certo come Gibellina Nuova. È un lavoro quasi più di urbanistica spontanea, non pianificata.
VA: La cosa incredibile è vedere dalle fessure le macerie della città distrutta
VS: Ieri sono stato a recuperare delle macerie, 60 frammenti, tra i ruderi della zona e abbiamo fatto un lavoro con tutte le persone, un adagio tenendo queste macerie, che è il momento conclusivo della nostra azione.

VA: Allora, iniziamo con le domande vere e proprie…La prima si relaziona con la tematica della rivista BE UN/NATURAL, che cerca di mettere in relazione artificio e natura attraverso diversi linguaggi. E quindi mi sono chiesto, dato che Burri non fa mai dei manifesti sulla sua arte, ma parla spesso di equilibrio tra natura e artificio, tra organizzazione e caso, conettendomi alla tua pratica coreografica e artistica, cosa pensi sia naturale e cosa artificiale? Pensi esista una separazione tra questi due concetti nella costruzione di un movimento, dal momento che lavori con il gesto, che è qualcosa di quotidiano?
VS: Il gesto è sempre innaturale e dunque anche la ricerca. Spesso parliamo di naturalezza, forse la si scambia con la nostra capacità di memorizzare e schematizzare. Cioè, può essere forse naturale un gesto quotidiano come salutare una persona, forse camminare anche, però con l’andare del tempo le persone acquisiscono delle patologie, per cui non è più quel bel camminare ma è un camminare con delle specificità, e così via. Quindi il gesto naturale ha a che fare con il richiamarci sempre agli elementi primari. La prima cosa certa è che noi graviamo in terra, elaboriamo la gravità e quindi sappiamo che un braccio lasciato andare cade. Tutto il mio lavoro è basato su questa idea qui. Anche la camminata: si può rigenerare il senso del camminare. E quindi mi interessa lavorare su gesti proprio semplici, primari, e ritrovare in questi quelli che sono gli elementi fondamentali. Se si gravita, significa che le articolazioni risuonano, se risuonano si trasmettono un gesto l’una nell’altra. Quindi gravità, capacità di trasmissione e capacità di ascolto sono punti cardine.
VA: Effettivamente la gravità è qualcosa che non si può trascendere.
VS: L’unica certezza che io ho è la gravità. Le persone non sanno abbandonare le braccia, tengono sempre, sono sempre produttivi. Quindi rielaborare il concetto di gravità, cioè sottrarre, lasciare andare o mollare, e così anche i pensieri, gli schemi mentali.. Quando apprendiamo qualcosa entriamo subito in un’elaborazione e iniziamo a “prendere”, per me è interessante apprendere lasciando continuamente andare.
Non si può parlare di naturalezza se non nel momento in cui l’individuo entra in un processo di ascolto del corpo e capisce che un gesto si può trasmettere all’altro attraverso la risonanza: quando facciamo un passo risuoniamo al suolo. Se uno ha le articolazioni bloccate non risuona e con l’andare del tempo si fa del male. Ma tutto questo viene elaborato poeticamente, cogliendo quegli elementi desueti e mettendoli in un discorso rinnovato. Dunque si tratta di elaborare continuamente gli elementi artificiali per richiamarli al concetto di naturalezza.
VA: Anche perché il gesto di per sé si tramanda..
VS: Anche solo il gesto di alzare il braccio e portarlo avanti non lo facciamo nella quotidianità però lo possiamo fare, ma come farlo? E lì inizia il tema dell’evoluzione dell’uomo: ci siamo evoluti attraverso l’utilizzo delle mani, attivando i polpastrelli, attivando il palmo della mano, capire che la mano, come dice Dante, si può “squadernare” e quindi il polso diventa una colonna vertebrale tra il braccio e la mano. Quindi si acquista un modo di tenere il corpo che supera l’elemento produttivo dell’uomo, che lo attiva solo quando ha da prendere o fare una determinata cosa. La danza è questo: richiamarci a dei gesti che non facciamo mai ma che possiamo fare.
VA: Mi sono imbattuto in un tuo lavoro realizzato nel 2015 agli Ex seccatoi del Tabacco, i Quartetti sul nero. Non è dunque la prima volta che il tuo lavoro interagisce con le opere di Burri?
VS: Ancora prima, cinque o sei anni prima ero stato agli Ex seccatoi del Tabacco a fare un lavoro con le opere di Burri, soprattutto le opere bruciate con le fiamme ossidriche.
VA: Quindi c’è stato un forte richiamo verso l’artista?

VS: Si, si. Già in uno dei miei primi lavori che era Inno al rapace dell’ ’87 avevo ricostruito una sedia che avevo chiamato “Sedia Burri” perché mette insieme dei legni bruciati.
VA: L’hai utilizza come elemento di scena?
VS: Si, era un elemento di scena. Io ho sempre avuto una passione per quel modo di “essere con la materia”.
VA: I grandi maestri sono spesso poco trattati, oppure sembra debbano rimanere intoccabili..
VS: E del resto come trattarli? Ricostruendo una scena di Burri?
VA: Non ci puoi lavorare sopra.
VS: Non puoi citare riproiettando un’opera, oppure ricostruendo.
VA: Devi entrarci più in profondità.
VS: Se si è adiacenti bisogna capire se è possibile dialogare. Nei Quintetti sul Nero è stata ricostruita una grande tela nera in terra. Si lavorava su un Nero che mi pare fosse 15×6 m con una grande cornice marrone, esattamente come i Grandi neri in quella sala. Lavoravamo su questo piano orizzontale.
VA: Come mai cinque danzatori?
VS: Si, cinque danzatori della compagnia.
VA: L’elemento quintetto torna anche in Paradise Now mi pare..
VS: Si, io non lavoro con il tre per esempio. È impossibile per me lavorare con il tre, vado dal solo al duetto al quartetto, raramente quintetto, raramente sestetto, meglio settetto o ottetto. Ovviamente per me c’è una legge numerica nella costruzione. Il quintetto è un lavoro affascinante per me per il sistema coreografico e di relazione che si può creare.
VA: Cosa ti ha spinto a esplorare l’opera di Burri attraverso il movimento e la coreografia dal momento che lui è principalmente un artista visivo?
VS: Nei Quintetti sul Nero l’idea era veramente di riflettere sull’idea di nero, ma non tanto di fare delle coreografie con il nero come sfondo, quanto più di riflettere sul concetto di nero e quindi elaborare un’azione coreografica. In quel caso lì proprio un grumo di contatti…ci si poteva toccare. Aveva a che fare con degli abissi che si potevano creare attraverso tutte queste tattilità. E quindi era nato un meccanismo tra i danzatori. Quando porti l’attenzione con continuità su un concetto – in quel caso lì il nero, la materia nera, l’abisso, l’assenza di prospettiva, tutto quello che è riuscire a guardarsi dentro, ma allo stesso tempo un’eternità che si apre di fronte a te -ovviamente il gesto, l’elaborazione coreografica vira. Ovviamente se lavori sul bianco cambia l’alchimia del corpo e della riflessione sul gesto.
VA: C’è anche un’intuizione del danzatore che si relaziona, ad esempio, con i Neri? I danzatori hanno improvvisato in qualche modo?
VS: Abbiamo osservato le opere e poi l’idea non è quella di interagire con le opere, eccetto con il Cretto perché ovviamente ci sei sopra e dentro. Lì (Quintetti sul Nero) l’idea non era di interazione ma ovviamente il lavoro è stato ambientato nella Sala dei Grandi Neri con l’idea di essere una monade che si muoveva. Quella sala lì ha delle misure precise e delle metriche precise: una tela grande succede a una tela grande ecc…Non mi ricordo bene ma mi sembra fossero cinque sequenze coreografiche per ricreare le cesure dei Grandi cicli di Burri.

VA: Come dicevamo prima, il Cretto è stato immaginato come luogo di silenzio e contemplazione. Forse per questo la danza, il teatrodanza e la performance sono tra le manifestazioni che meglio dialogano con il Cretto, non essendo strettamente legate alla parola. Paradise Now è già stato messo in scena al Centro Pecci di Prato, ma nella tua pratica l’attenzione per i luoghi e per la relazione con il paesaggio è sempre centrale, in che modo pensi che questa nuova scena possa arricchire il progetto e conferirgli ulteriori letture?
VS: Parliamo di cose diverse, magari ci sono degli elementi che riporto a Gibellina ma sono due lavori molto diversi anche se il titolo era nato al Pecci.
VA: Lì lavoravi con delle piante?
VS: Tutto era rivolto a creare un giardino con 200 piante.
VA: Un giardino che è rimasto?
VS: No, non è rimasto perché è stato fatto nell’anfiteatro e intorno, quindi un giardino di piante in vaso che venivano continuamente mosse. Ritornando a come mi sono trovato con il Cretto, devo dire che il mio lavoro avviene attraverso il corpo e attraverso il gesto, quindi esprime di per sé un’elemento musicale che ha a che fare con il silenzio e con un suono che comunque è un suono fisico. Dunque ho trattato il Cretto non come un teatro. È un lavoro sulla lontananza, su un paesaggio con queste persone a 150 metri, lontanissime dal pubblico. Quindi si intuiscono i leggeri movimenti di questa comunità. Piano piano dall’alto si intuiscono gli elementi fisici. Non viene proposta l’azione frontale e immediatamente leggibile come in teatro.
VA: La visione è fondamentale, nel senso che sono delle forme che si muovono, che si ricompongono, è un enorme scena ma che non si può ricondurre al teatro. È una scena totale.
VS: In teatro entri e dopo 8-10 metri dal palcoscenico sei sul proscenio, qui parti da lassù e dopo 50 minuti arrivi a una distanza da cui si è abituati a vedere un performer. È un lavoro anche sull’immersione in un paesaggio.
VA: Non c’è un fronte. “Non sentitevi mai dietro” hai detto ai performer durante le prove. Il pubblico potrà attraversare le vie del Cretto?
VS: Non si può per motivi di sicurezza legati alla pandemia. Il pubblico starà in un punto intermedio.
VA: Dunque hai riadattato Paradise Now al Cretto o hai ripensato un lavoro nuovo?
VS: In realtà quando è iniziato questo lavoro a maggio, ho creato quattro progetti, uno a Udine, uno a Mantova, uno al Pecci e uno a Gibellina. Sono quattro progetti sulla lontananza. A Udine ho scelto il grande parcheggio dello stadio, una ferita urbana, profondo 300 metri e largo 80. Tutto asfalto e cemento, luci e lampioni alti 80 metri. Lì ho fatto un lavoro sul Mondo Novo del Tiepolo con le presenze che arrivavano dal fondo. Stiamo parlando di un’idea coloristica, il sole tramontava di fronte al pubblico e ho usato elementi come piccole bandiere alte e rosse, rosa e gialle come nel Mondo Novo del Tiepolo di Ca’ Rezzonico.
A Mantova a Palazzo Te ho fatto un lavoro sul fiume Mincio: nel Borgo delle Grazie ho trovato un prato lungo 200 metri e largo 80 dentro a un boschetto con l’erba alta almeno 80 centimetri. Un lavoro, come gli altri tre, partecipativo con professionisti e cittadini dove gli interpreti erano in questa radura immensa e anche sprofondati nell’erba. Poi siamo passati al lavoro al Pecci, legato invece a un concetto di avvicinamento, di zoommata. Il primo lavoro è stato fatto sulla collinnetta davanti al Pecci e anche lì emergevano i lampioni, la seconda azione al Pecci è stata fatta sulla tribuna con il pubblico davanti alla tribuna, quindi spazio rovesciato. Alla fine il pubblico andava sulla tribuna e aveva tutto l’anfiteatro di fronte a sé, utilizzato nella sua grande ampiezza. Lì quindi il lavoro non si è basato sulla lontananza ma su questi tre spostamenti del pubblico. Tre prospettive: una collinetta bassa, una tribuna guardata dal basso e poi uno schiacciamento dall’alto. Infine sono ritornato a fare un lavoro sulla lontananza per il Cretto. Ho unito le tre esperienze per questo ultimo lavoro.
