Alberto Burri: dalla pittura alla pittura

Gianluca Carchia

In Burri, qualsiasi possibilità che l’espressione umana, per essere realmente efficace, differisca ed esuli dalla condizione esistenziale, la pittura non possa sopravvivere che quale proposizione esemplare di questa condizione e quindi debba proporsi con contatti freschi ed immediati di materia non sublimata in immagine, bensì interamente rispettata nella propria ineluttabile esistenzialità.

Enrico Crispolti, 1957
Alberto Burri nasce a Città di Castello nel 1915. Dopo essersi laureato in medicina nel 1940 e aver sperimentato i campi di concentramento in Texas, decide di dedicarsi alla pittura. Dagli esordi come artista nel 1947 fino alle opere grafiche realizzate negli anni Ottanta, Burri non ha mai abbandonato la pittura come strumento espressivo.
Le opere degli anni Quaranta sono accostabili per stile e iconografia alle opere realizzate dagli artisti della Scuola Romana, dove il tonalismo incontra la costruzione di Carlo Carrà e Arturo Tosi, mentre dal decennio successivo Burri inizia a realizzare dipinti dove l’elemento informale è molto presente. Tuttavia, ciò che interessa l’artista umbro è la potenza espressiva e pittorica della materia ed è per questo motivo che egli inizia a sperimentare l’utilizzo di ogni tipo di materiale. Dai sacchi al cellotex, passando per il catrame, le stoffe, il ferro, il legno e la pietra pomice, questi sono gli strumenti espressivi di Burri. Sebbene egli abbia partecipato alla formazione del Gruppo Origine nel 1951, tuttavia ha sempre lavorato puntando la ricerca su se stesso. Ovviamente, nel sistema dell’arte contemporanea le influenze e le vicinanze con ricerche stilistiche come l’Arte Povera piuttosto che l’Informale sono inevitabili, talvolta anche tangenti per espressione e forma stilistica.
Burri, durante tutta la sua carriera, ha indagato, costruito e destrutturato sempre in funzione della materia, dove gli oggetti sono utilizzati in virtù della loro qualità pittorica, da SZ1 a Mixoblack con l’unico obiettivo di rivendicare l’importanza del lavoro dell’artista. Le forme scelte da Burri hanno un senso compiuto che si risolve nella gestione spaziale del quadro. Ogni opera, infatti, è il risultato di forma e di equilibrio, le quali sono caratteristiche tipiche della pittura, da Giotto a Kandinskij, e questo fa di Burri un artista pienamente inserito nella storia dell’arte.
Burri non è un artista in rivolta della tradizione d’avanguardia, il suo impegno è diverso in quanto utilizza la materia per affermare il suo valore pittorico, creando, distruggendo le materie stesse.
L’arte del comporre si fonda quindi su forma e spazio, elementi utilizzati dall’artista umbro fin dai suoi lavori figurativi, eseguiti nel campo di detenzione di Herenford, in Texas.
Burri, fin dalla monografia di Sweeney del 1955, è stato considerato dalla critica come un corpo estraneo ai movimenti d’arte a lui contemporanei. Si è tentato di inserirlo nel contesto dei collage e del New Dada, piuttosto che nell’Informale o dell’Arte Povera, movimenti dai quali, seppur ad un primo sguardo possano essere considerati vicini, Burri ne ha sempre preso le distanze, sia per motivi personali che di ricerca. Una soggettività forte e una creatività sempre in costante ricerca della sua sostanza, collocano Burri tra i maestri dell’arte del secolo scorso, dove la pittura è ontologicamente e tautologicamente pittura e dove ogni parola metaforica e trascendentale è considerata superflua.

Gli esordi come artista, dall’esperienza figurativa a quella materica

Il percorso artistico di Burri inizia tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944 nel campo di Herenford, in Texas, dove viene deportato dopo essere stato catturato in Libia. Non potendo esercitare la professione di medico, decide di iniziare a dipingere.
I dipinti di questo periodo sono di tipo figurativo dove i toni caldi e la ricerca spaziale e prospettica sono le due caratteristiche principali. Un colore che si pone sulla tela sacco – Burri utilizza teli dei sacchi da zucchero e colori derivati da materiali di fortuna – in maniera robusta che va a definire secche e rigide strutture architettoniche sfumate però da una partitura a zone dilatate e con un punto di fuga molto alto.
Burri, in dipinti come Texas e La Pesca a Fano, utilizza pochi elementi per costruire il paesaggio: la staccionata, gli alberi e il pozzo definiscono schematicamente il campo di azione del pittore.
Nel 1946 Burri rientra finalmente in Italia e con lui le tele dal campo degli “irriducibili”, che tuttavia l’artista distrugge, salvando solamente cinque opere. Burri è convinto ormai di fare il pittore e, dopo i primi mesi trascorsi nella sua Città di Castello, si trasferisce a Roma. Nel 1947 realizza la sua prima mostra personale, presso la galleria La Margherita dove porta i suoi dipinti figurativi, dove l’uso del colore può ricordare la pittura di Emanuele Cavalli piuttosto che di Fausto Pirandello o di Ferruccio Ferrazzi, con la sua materia pittorica che si inserisce in maniera espressionista sulla superficie del quadro. Un modo di dipingere questo che pone Burri, in una condizione storicizzante, agli inizi del suo percorso. Egli, infatti, utilizza tele già usate, che porteranno alla cosiddetta svolta dei sacchi nel 1949 con SZ 1 dove il collage incontra la pittura e dove il sacco viene concepito non come materiale estrapolato dalla realtà ma come realtà stessa del materiale. Un sacco quindi pensato per le sue proprietà pittoriche ed espressive che diventa pittura e che finge la realtà.

Alberto Burri, SZ 1, 1949, olio e sacco su tela, cm 48×58, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

Ma prima di arrivare a questa opera cardine della sua ricerca espressiva, egli realizza, nel 1948, un’altra personale nella stessa sede. Una mostra completamente diversa dalla precedente in quanto presenta dipinti dalla vocazione astratta, se paragonati alle opere dell’anno precedente. È l’esordio delle “Muffe”, dei “Neri” e dei “Catrami” con le quali Burri perfeziona la sua volontà di ricerca materica.
A cavallo degli anni Cinquanta, Burri sperimenta soluzioni fino a quel momento inedite nel panorama dell’arte mondiale; è alla ricerca di effetti e di partiture cromatiche nuove con le quali cerca di risolvere la forma del quadro realizzando i “Gobbi”, ossia quadri con estroflessioni realizzate con rami di legno che si intromettono nello spazio di fruizione.
La ricerca, quindi, è la componente fondamentale della sua arte ed è il pittore Nuvolo a rivelare la genesi di queste opere:
Il direttore del laboratorio chimico della dogana di Roma in quegli anni era un dottore in chimica di Città di Castello molto amico di Burri che si chiamava Bianchini. Dal suo ufficio passavano tutti i prodotti che, per legge dello Stato, dovevano essere analizzati per poter entrare in Italia attraverso la dogana. In mezzo a tuti quei prodotti vi erano anche molte resine. Ad esempio, Alberto scoprì per primo il Vinavil perché l’aveva scovato proprio in mezzo ai vasetti del Bianchini, il quale gli aveva detto: “Guarda che a me capitano dei materiali così e così…”; e lui, pronto, “Porta, porta…”
Le “Muffe” e i “Catrami” vengono realizzate con i resti di quei barattoli e sono sostanze sconosciute che Bianchini concedeva al suo amico. Alcune sostanze sono colorate e Burri le lavora e le plasma aggiungendo il colore che più ritiene adatto per raggiungere il suo ricercato equilibrio di forma e cromia.
Il passaggio di Burri in queste due mostre risulta evidente. Da una ricerca di tipo figurativo si passa ad una ricerca dove è la materia il soggetto del dipinto. Lo studio della forma e delle trasformazioni di materiale che possono essere usati a fini pittorici contraddistingue tutta la sua attività artistica.
Il dipinto SZ 1 inaugura la serie più famosa dell’artista umbro. Burri colloca e incolla sulla tela dei frammenti di sacco di iuta utilizzati per il commercio dello zucchero che contorna con un nero molto spesso, definendo lo spazio di azione in maniera molto decisa. L’utilizzo di questo materiale dialoga con la pittura come in tutti i “Sacchi” successivi quali Sacco 5P e Sacco e Oro e dei quali è necessario fare una precisazione. L’opera di Burri è stata fin dall’inizio, quando James Johnson Sweeney nel 1955 gli dedica una monografia, letta come metafora della vita e della morte, del suo contrasto che genera lacerazioni e ferite. I “Sacchi” colpiscono l’immaginazione e innescano interpretazioni fuorvianti che portano la lettura su un piano esistenziale e patetico.

Alberto Burri, Sacco e Oro, 1953, sacco, acrilico e oro su tela, cm 86×100, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

Quella di Burri è pura pittura, sulla tela si crea un dialogo tra materiali tradizionalmente pittorici e innovativi. Quest’ultimi hanno anch’essi proprietà cromatiche. Non rimanda a niente se non a se stessa, tanto che SZ 1 non altro che un titolo le cui iniziali sono prese da Sacco Zucchero 1, a significare l’origine della sua ricerca. Un titolo che significa l’opera stessa, evitando quindi ai critici di cercare altre visioni, come accedeva nella coeva arte astratta. Inoltre, è lo stesso Burri a precisare la lettura delle sue opere da parte di Sweeney che, seppur insieme a Tapié sia stato il primo ad interessarsi alla sua pittura, tuttavia ha interpretato e non letto la sua opera, come si legge in una intervista con Stefano Zorzi. Infatti, Sweeney scrive che:
Da una ferita è scaturita la bellezza. Questo almeno nel caso di Burri. Perché Burri muta gli stracci in una metafora di carne umana, sanguinante, rianima i materiali morti con i quali lavora, li fa vivere a sanguinare; poi cuce le ferite con un senso di evocazione e con la stessa sensibilità con cui le ha fatte.
Zorzi:
Ma davvero esiste una sorta di continuità tra il Burri medico di guerra, a contatto con le ferite, le garze e il sangue, e quello che sarà poi il Burri pittore, il Burri dei sacchi e dei rossi accesi? Tornavano alla mente queste immagini o sono solo richiami di altri a posteriori?
Burri:
No, non ho mai pensato a niente del genere. È Sweeney che interpreta dalla fresa di Henry Michaud che dice “qui lasse une trace, laisse une plaie”: chi lascia una traccia, lascia una piaga.
In verità non esiste alcuna relazione tra la mia attività di medico nel periodo della guerra e la mia attività di artista. Non ho mai avuto, come taluni hanno ipotizzato e scritto, flash back di alcun tipo su garze, sangue, ferite o altro ancora. L’unica relazione è di tipo consequenziale, e cioè che io, in quegli anni di prigionia nel campo di concentramento, mi rifiutai di esercitare l’attività di medico e mi calai completamente nella pittura.

Gli anni del successo: dal gruppo Origine alle combustioni

Tra le molteplici e spesso divergenti esperienze della pittura e scultura del nostro tempo, limitatamente al suo aspetto "non-figurativo", il Gruppo Origine tende a distinguersi decisamente, muovendo da talune particolari esigenze di espressione.
Di fronte al percorso storico dell’”astrattismo", avvertito ormai come problema artistico risolto e concluso, sia nel suo atteggiamento di reazione nei confronti di qualunque figuratività contenutistica, sia come sviluppo secondo una direzione, nel complesso, sempre più orientata verso la compiacenza decorativa e, insomma, in senso manieristico, il Gruppo Origine intende riproporre il punto moralmente più valido delle esigenze "non-figurative" dell'espressione. In altri termini, nella rinunzia stessa ad una forma scopertamente tridimensionale; nella riduzione del colore alla sua funzione espressiva più semplice ma perentoria ed incisiva; nella evocazione di nuclei grafici, linearismi e immagini pure ed elementari, gli artisti del Gruppo esprimono la necessità stessa di una visione rigorosa, coerente, ricca di energia. Ma, primamente, antidecorativa e, in tal modo, schiva da qualsiasi compiacente allusione ad una forma di espressione, che non sia quella di un raccoglimento umile ma concreto, proprio in quanto decisamente fondato sul significato spirituale del "momento di partenza" e del suo umano riproporsi in seno alla coscienza dell'artista.
L’adesione al gruppo di Burri con Mario Ballocco, Giuseppe Capogrossi ed Ettore Colla, promotore del gruppo, nasce da una solidità artistica nel 1951, dato che avevano già esposto insieme nei due anni precedenti.
Dopo aver preso le distanze dall’astrattismo quindi, il gruppo dichiara l’intento di proporsi come il punto di riferimento di quelle espressioni artistiche non figurative.
Come già molti avevano scritto, l’attività di Burri viene accostata alla “matericità” dell’Informale, non rilevando come egli, tuttavia, non ricerchi il dato emotivo e psichico nella sua materia. Lo stesso Burri dichiarerà in seguito che l’adesione è stata poco meditata e che niente di quello che è scritto nel manifesto è opera sua. Burri resterà quindi un estraneo del gruppo, il quale, dopo la mostra di inaugurazione verrà sciolto da Colla in aprile per promuovere la Fondazione Origine – Centro di raccolta e documentazione per lo studio e la divulgazione dell’Arte Astratta, che troverà voce nella rivista “Arti Visive”, diretta da Colla, Ballocco ed Emilio Villa. Burri quindi se ne discosta completamente e decide quindi di continuare la sua ricerca da solo.
Dopo i “Sacchi”, Burri approccia ad altri materiali come il legno e la carta, le cui combustioni sono indagate dall’artista come un processo artistico e non artigianale. Se le prime combustioni risalgono al 1953-1954, intorno al 1955 Burri inizia a lavorare anche con il ferro in lamiere che vengono create appositamente per Burri e che segnano una svolta nella sua poetica. Nel 1959 Paul Wember scrive di “concetto sublimato di forma” per descrivere il procedimento di scelta e di lavorazione di questo materiale da parte di Burri. Il pittore, infatti, come lo scultore Gonzalez, si accontenta di forme ben precise senza valore per comporle in una nuova forma non figurativa. Gerald Nordland, invece, nel 1977, si sofferma sulla geometria spaziale delle composizioni in ferro:
che siano geometrie, sensuali-barocche o raffinate fino a toccare il minimalismo, sono sempre le sue composizioni a esprimere la continuità della tradizione artistica. Molti dei suoi materiali, un tempo estremamente provocatori, hanno perso ormai questa capacità di scioccare. Vi leggiamo ormai soltanto la struttura esistenziale e l’ordine interno. 
I “Ferri” si presentano con durezza, come una pittura monocroma senza squilli di rossi e di ori, ma soltanto con una gradazione e accostamento di bruni e grigi, ossia i colori delle lamiere saldate e arrugginite, dove le ombre dei tagli creano altrettante zone scure d’ombra.
Il monocromatismo di Burri, diverso da quello di Lucio Fontana e di Mark Rothko, intensifica il valore umano con rigore, il quale esclude e richiama allo stesso tempo ogni valore pittorico. L’armonia della materia non richiama la razionalità fiduciaria di Piet Mondrian, bensì richiama la sostanza stessa della materia che viene plasmata sulla superficie del quadro per raggiungere nuove forme. I “Ferri”, quindi, per la loro trasposizione in pittura, sono il risultato di una ricerca plastica che viene indagata in maniera sistematica con soluzioni che vanno oltre la terza dimensione e invadono lo spazio del visitatore, anticipando, in certo senso la ricerca di Fontana.
Contestualmente ai “Ferri” abbiamo le combustioni di legno e soprattutto della plastica, le quali proseguono negli anni Sessanta. Se, come già scritto le combustioni su carta sono realizzate da Burri alla metà degli anni Cinquanta, l’esordio ufficiale avviene nel 1956, come si desume osservando Combustione sacco.
L’analisi di azione e reazione del fuoco, una pratica che avviene in maniera esperienziale, porta alla scoperta del legno. Combustione legno del 1956 è uno dei primi lavori di sperimentazione. I sottili fogli piallati sono trattati come fossero fogli di carta. Il calore della fiamma ha consunto parte del materiale rivelando in questo modo il bianco della tela di supporto ma ha anche sottolineato l’ordito della trama compositiva ideata e realizzata da Burri. Le bruciature, come nei sacchi, non rimandano a ferite o a drammi ma, piuttosto, sono il simbolo del tempo il cui disfacimento rende più complesso il quadro, il quale è realizzato in maniera formale.
Gli esiti del fuoco non sono mai prevedibili, nonostante Burri non abbia mai abbandonato la ricerca di un rigore compositivo, come si può notare in Combustione rosso del 1957 e in Rosso Combustione Plastica del 1957. La plastica sostituisce il legno e avvia, nei critici, quel tentativo di accostare Burri ai maestri dell’Informale ma, come nota Enrico Crispolti nel 1959, se per Fautrier, Dubuffet e Wols l’arte è una commistione di segno e materia, per Burri “è la stessa conformazione materica ad imporsi come immagine”.

Alberto Burri, Combustione, 1957, acrilico e vinavil, cm 48×38, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

La sperimentazione della plastica dura, circa, fino all’inizio degli anni Sessanta quando Burri passa allo studio del cellophane che Brandi nel 1962 definisce come una materia
così usata, così quotidiana e inevitabile, che quasi non si vede più, si accetta come una delle tante vicende quotidiane che impediscono là una direzione, qui un transito, ci impongono nuove forme di apparente asetticità nella presentazione dei cibi come dei fiori. 
Scoperta un po’ per caso, Burri utilizza la pellicola plastica per riflettere sugli effetti di trasparenza garantiti proprio dal cellophane. Plastica T del 1962 è l’esempio di questa caratteristica in quanto il supporto scompare per sottolineare la velata e grassa trasparenza del materiale che, al contatto col fuoco, si apre e si torce, come un panneggio scolpito da Fidia. La trasparenza, poi, è evidenziata dalla pressione di più strati di materiale che offrono all’opera effetti luministici.
Famoso è il servizio fotografico di Ugo Mulas del 1963, seguito dal film di Franco Simongini del 1969 che mostrano Burri al lavoro. Il ricorso alla combustione sottolinea la necessità di controllare la procedura, la fiamma viene utilizzata come un pennello imprevedibile che solo Burri è in grado di gestire.
Dopo aver quindi aver indagato le possibilità di composizione e le capacità plastiche del cellophane, memore dell’utilizzo del ferro, Burri indaga le possibilità cromatiche offerte dai grumi di materia che si creano con le bruciature.
Un esempio è Rosso combustione del 1964, conservato alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, dove Burri interviene sulle superfici già combuste con il colore al fine di dare maggiore risultato plastico a tutta la composizione. Il colore, in questo modo, fissa sul supporto nero, come quello delle opere dei primi anni Cinquanta, i residui delle bruciature e offre alle opere una presenza fisica già ottenuta dalle pieghe del cellophane combusto.
Alla metà degli anni Sessanta le “Plastiche” tornano bianche (un esempio è l’opera Bianco B 4 del 1965) dove la pittura è concentrata in una zona del quadro e non su tutta la superficie.
Sono anche le “Plastiche” ad avvicinare un giovane Crispolti alla attività pittorica di Burri, il quale definisce l’artista intelligente per i suoi “accordi sottilissimi”, dove le materie sono utilizzate non per “un intento surrealista di sorpresa ma solo di modo di trovare una maggiore finezza di accordi”. Inoltre
la mescolanza su tela di pietra pomice, gesso e pittura a olio, oltre naturalmente a inserti di stoffa, poteva in effetti lasciare l’impressione di malridotto.
Da queste parole sembra chiaro come Crispolti abbia compreso nel 1967 la profondità della ricerca del pittore umbro e che, come scrive Luca Pietro Nicoletti, “la questione dell’utilizzo di materiali eterogenei non si poteva ridurre semplicemente a una questione linguistica, bensì implicava una compromissione con un fatto umano di fondo”.
Per Crispolti Burri lavora sulla verità che è evento e non sulla pura presentazione e/o rappresentazione dell’immagine come nei pittori informali, in quanto egli fa emergere la materia che non assume altro significato che di materia stessa.
Nel 1958, in un breve saggio per il “Notiziario” Crispolti polarizza l’attività pittorica di Burri tra attivismo americano e l’esistenzialismo di Sartre, quindi europeo. L’attivismo connota una vitalità della materia che trova un compagno di ricerche in Fontana.
Nell’attivismo vi è la certezza di riuscita della ricerca ma di fronte a una realtà che tende a flettersi su se stessa diventa complicato per Burri trovare nel pragmatismo e nel rigore questa certezza. Ecco che il secondo termine viene in aiuto ed “è proprio Burri anzi a rinnovare perentoriamente l’opposizione di una tragica e disperata alternativa all’ottimismo vitalistico prevalente nell’attuale cultura figurativa nord-americana”.
La “traccia”, il “sintomo” e l’“impronta”, inoltre, sono tre termini che Crispolti utilizza per descrivere l’opera di Burri, inserendolo, come già scritto, nel confronto con l’Informale europeo. Ecco allora che l’esistenzialismo di Sartre chiude il cerchio non in quanto evento psichico ma come il risultato della sua ricerca pittorica. Il lavoro di Burri sulla materia è personale e “non ipotizza un’aurora di libertà” in quanto non ha nessun rapporto con la realtà a lui circostante ma solamente con la realtà intrinseca della materia che lotta per diventare pittura e che, nella ricerca di Burri, ritrova le sue caratteristiche.

Alberto Burri, Grande Ferro, 1959, ferro, cm 200×186, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

Dai “Cretti” ai “Cellotex”: Burri ha sempre fatto pittura

L’invenzione più significativa della maturità artistica di Burri è la stagione dei “Cretti”, in cui riprende il monocromo, in quel caso apparente, dei “Ferri”.
Utilizzando come base il cellotex, preludio alla stagione successiva, Burri non indaga più il valore distruttivo della materia bensì la sua capacità di unirsi ad altra materia per studianrne poi gli effetti.
Infatti, i “Cretti” sono realizzati con una stesura unica di un impasto di caolino, terre, colla vinilica e pigmenti bianchi o neri. Gestendo poi in maniera controllata i tempi di essiccazione e ritiro dell’impasto, Burri ottiene tessiture screpolate a cui è affidata tutta l’efficacia espressiva di opere che rimandano all’eterno confronto tra vitalità e disgregazione. È proprio qui che esiste l’invenzione dell’artista, il quale riesce a realizzare sia cretti uniformi che dalle trame variabili e decorative. Cretto G 1 e il Nero Cretto G 4, entrambi del 1975, sono due esempi che rimandano alla composizione della terra arsa dal sole, come Burri ha potuto vedere sia in Umbria che durante i suoi viaggi in America. Le trame della vita e della sete si compongono sulla superficie del quadro dove regna una compostezza severa animata soltanto da lievi variazioni dell’intensità e della dimensione delle crepe. Questa dei “Cretti” non è altro che una ulteriore dimostrazione che l’opera di Burri rimandi alla tradizione, a partire dal supporto. I dipinti si collocano sulla parete e i “Cretti”, se da un lato rimandano alla processualità della terra che si trasforma e si piega al calore, da un altro rimandano alle pellicole pittoriche che col tempo si rovinano.
La crettatura dei dipinti verniciati dai restauratori del Sei e del Settecento è un dato visivo importante che caratterizza molte opere del passato e Burri, in qualità di artista intelligente, omaggia il tempo che, inesorabile, crea danno sulle opere d’arte.
I “Cretti” sono la conferma di come la materia, nelle mani di un’artista, possa essere utilizzata per creare diversi livelli di lettura, come in questo caso, dove il rimando alla natura incontra la storia dell’arte e del restauro.
Nel 1981 i “Cretti” raggiungono la storia e la memoria. Nel 1968, la cittadina siciliana di Gibellina viene rasa al suolo da un terremoto che costringe gli ingegneri e architetti dell’epoca a ricostruire la città a circa 20 km di distanza. Quando Burri viene invitato dal sindaco Ludovico Corrao, le sole tracce visibili del paese erano un mucchio di macerie. Nella città ricostruita erano intervenuti artisti come Franchina, Uncini, Accardi, Pomodoro e Consagra e il sindaco chiede all’architetto Alberto Zanmatti il contatto di Burri, il quale dichiara che qui non avrebbe potuto fare nulla. Così, Burri si fa accompagnare dove sorgeva il vecchio paese e propone l’idea che oggi vediamo: coprire il paese perduto con un memoriale di cemento dove emergono le vie, le piazze e gli incroci che hanno caratterizzato la vita di quel paese. Un cretto di circa 12 ettari, completato solo nel 2015, che si presenta come un incredibile monumento alla memoria. L’opera, quindi, si pone a metà strada tra Land Art e un sudario di un evento geologico che ha devastato tutta la Valle del Belice, un’opera da attraversare sia fisicamente che con la propria anima, dove si respira la fatica della realizzazione ma anche la sensazione del perduto e dell’irrecuperabile. È il regalo di Burri ad una regione, la Sicilia, la cui geografia storica è caratterizzata da cadute e da rinascite e la cui terra è simbolo di orgoglio e di attaccamento di un popolo che non si è mai arreso.
Se quindi, i “Cretti” da museo sono pittura storica e processuale, il Cretto di Gibellina è un’opera realizzata per la memoria di tutta la comunità.

Alberto Burri, Bianco Cretto, 1970, acrilico su tavola, cm 53×53, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

Infine, gli anni Ottanta sono il momento in cui Burri torna alla pittura tradizionale, dove la materia, il cellotex, diventa puro supporto, seppur esclusivo e talvolta come elemento cromatico che si integra perfettamente con la composizione. Una lunga stagione, che lo accompagna fino alla morte avvenuta nel 1995, che è caratterizzata da cicli pittorici di grandi dimensioni pensati per il suo museo presso gli ex Seccatoi di Tabacco di Città di Castello.
La sovrapposizione dei rossi e dei neri hanno valore sia cromatico che meditativo per arrivare alla concezione della pura astrazione in opere come Orti 5 del 1980 oppure Nero e Oro del 1993. Sottolinea Giuliano Serafini:
Qui più che mai, dimensione della realtà e dimensione dell’arte collimano in una saldatura perfetta. Nei cellotex la memoria del passato rivive attraverso geometrizzanti campiture allo stato naturale.
Burri chiude un cerchio avviato in Texas, dimostrando quindi la continuità del suo lavoro e della sua esperienza, perché egli ha iniziato con il colore per rappresentare cose reali, esplorandone poi le potenzialità compositive e cromatiche, per poi tornare al colore applicato al cellotex in maniera geometrica e aniconica. Un itinerario estetico ciclico, coerente e soprattutto polifonico in quanto egli è stato sperimentatore sia di tecniche che di generi, dalla pittura alla scenografia fino alla grafica, alla ceramica e alla fotografia.

Alberto Burri, Orti 5, 1980, cellotex, vinavil, acrilico su carta, cm 250×375, Ex Seccatoi Tabacco, © ARCHIVIO FONDAZIONE PALAZZO ALBIZZINI COLLEZIONE BURRI, Città di Castello

Per una conclusione: la pittura di Alberto Burri

La mia pittura è una presenza irriducibile che rifiuta di essere tradotta in qualsiasi altra forma di espressione. È una presenza nello stesso tempo immanente e attiva. Essa è quanto essa stessa significa.

Nell’opera di Burri Cesare Brandi e Crispolti hanno evidenziato due aspetti: l’ordine geometrico e l’impiego di materie prelevate dalla realtà e collocate sulla superficie del quadro. Quindi la forma e lo spazio sono alla base della sua poetica e sono aspetti che nascono, tuttavia, nel corso del Novecento con il rinnovamento dell’Avanguardia.
Ma né il Costruttivismo oppure l’Informale sono rintracciabili nell’opera di Burri, seppur, apparentemente, nel polimaterico teorizzato da Enrico Prampolini nel 1944, si possano trovare alcuni punti di tangenza.
Si trattava di portare alle estreme conseguenze il concetto di sostituire, totalmente e integralmente, la realtà dipinta con la realtà della materia. L’arte polimaterica non è una tecnica ma, come la pittura e la scultura, un mezzo di espressione artistica elementare il cui potere evocativo è affidato all’orchestrazione plastica della materia. La materia intesa nella propria immanenza biologica come nella propria trascendenza formale.
Se Prampolini pensa la materia nel suo valore plastico, reale ed energetico, come i Futuristi oppure, nel caso dell’energia, come gli artisti dell’Arte Povera, Burri alla materia dà un valore cromatico e pittorico.
La materia per Burri non deve essere considerata per quello che vuol dire in sé ma per quello che può esprimere e quindi non rappresentare.
Giorgio Morandi, pittore che Burri stima tantissimo, non utilizza le bottiglie in vetro o le scodelle in ceramica per presentarle, ma le rappresenta con i valori tonali che sono propri di quegli oggetti. Burri fa lo stesso però presentando la materia e lavorando sulla ricerca del contrasto cromatico con i colori puri (rosso, nero e bianco) che offrono forza espressiva al quadro. Una materia che per mano dell’artista si sublima ad arte, come accade con Marcel Duchamp, anche se il procedimento è diverso.
Burri non pesca dal caos la materia per enunciarla come arte ma la sceglie per la sua potenzialità artistica intrinseca e perché è a lui più vicina, più comune.
I sacchi, i ferri, le colle viniliche e le plastiche di vario tipo sono come i pigmenti per Annibale Carracci o Morandi, e Burri li usa pittoricamente e linguisticamente. Il pittore, come dice Carracci, parla con le mani, ma Burri non lancia messaggi precisi se non quelli che riguardano la materia. Un apporto che è minimo in quanto la morbidezza del legno o la durezza del ferro non sono le caratteristiche principali del quadro, lo sono invece la forma e il colore. Questo è steso per simbologie vitali, dove il bianco e il nero sono la somma di tutti i bianchi e i neri esistenti. Sono mezzi che sottolineano delle forze in contrasto, come sono in contrasto poi sulla superficie del quadro.
Tra Burri e i materiali c’è un dialogo costante. I “Sacchi” si realizzano nella loro presenza in quanto materia evocativa mentre le “Plastiche” sono “più stimolanti nella loro ricettività e determinano una violenza di intervento”, i “Ferri”, invece, con il loro carattere rigido sono il riferimento più diretto a quella volontà mai celata di ricerca di equilibrio e di forma nello e sullo spazio.
La manualità di Burri è il risultato di una ricerca costante e coerente il cui obiettivo finale, come scrive Argan nel 1964, è sempre stato il quadro ed è per questo motivo che le opere di Burri devono considerarsi pittura.

BIBLIOGRAFIA

  • Alberto Burri, a cura di Carlo Pirovano, Nuova Alfa, Milano 1991.
  • Alberto Burri and Matter, a cura di Massimo Duranti, Fabbri Editore, Milano 2011.
  • Alberto Burri nell’arte e nella critica, a cura di Francesco Tedeschi, Scalpendi Editore, Milano 2017.
  • Burri Inedito, a cura di Gabriele Nason, Edizioni Charta, Milano 2000.
  • Cesare Brandi, Burri, Editalia, Roma, 1963.
  • Maurizio Calvesi, Alberto Burri, Fabbri, Milano, 1971
  • Bruno Corà, Maurizio Calvesi, Collezione Burri, Ali&no, Perugia, 2011.
  • Maria Drudi Gambillo, Giuseppe Marchiori, I Ferri di Burri, Cromozincotipia, Roma 1961.
  • Andre Mirabile, Alberto Burri, Fondazione Burri, Città di Castello 2022.
  • Piero Palumbo, Burri. Una vita, Electa, Milano 2007.
  • Mario Perniola, Burri e l’estetica, in “Burri”, Electa, Milano 1996
  • Vittorio Brandi Rubiu, Alberto Burri, Torino, 1975.
  • Nemo Sarteanesi, Erich Steingraber, Il Viaggio, Electa, 1980
  • Nemo Sarteanesi, Burri. Contributo al catalogo sistematico, Città di Castello, Petruzzi Editore, 1990.
  • Giuliano Serafini, Burri, la misura e il fenomeno, Charta, Milano, 1999.
  • Italo Tomassoni, Alberto Burri: la sezione aurea dei Cellotex, Milano, 2006.
  • Stefano Zorzi, Parola di Burri, Umberto Allemandi, Torino 1995.

Si ringraziano la Fondazione Burri per la cortese disponibilità del suo patrimonio fotografico qui utilizzato e l’Archivio Enrico Crispolti Arte Contemporanea per la preziosa e ricca disponibilità di documenti che sono stati utilizzati in gran parte per scrivere questo contributo.

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