Sfilare nel tempo. L’affermazione del prêt-à-porter a Parigi

Sofia Busignani

I giovani couturiers emersi alla fine degli anni Cinquanta disegnavano abiti progressisti e orientati ai giovani: Saint Laurent fu licenziato da Dior nel 1960 per aver prodotto una collezione ispirata agli esistenzialisti vestiti di nero che popolavano la riva sinistra di Parigi. L’indumento chiave della sfilata era una giacca di pelle, o blouson noir, colloquialismo per gli hooligans sul Boulevard Saint-Germain, altamente improbabile dunque che venissero acquistati da un normale cliente di couture. Ma la sperimentazione di Saint Laurent, Cardin e Courrèges era indicativa di atteggiamenti mutevoli non solo verso la moda, ma anche verso la diffusione del suo immaginario.

Mentre alcune case, come Balenciaga e Givenchy, Chanel, Dior sotto Marc Bohan, continuavano a sbarrare le loro porte ai fotografi, altre iniziarono a sfidare le restrizioni della Chambre Syndicate. Tutto questo si accordava con l’umore del tempo: ribellione, radicalismo, rivoluzione. Si trattava di uno sconvolgimento dei costumi sociali, in cui i cambiamenti della moda riflettevano gli ideali in rapida trasformazione dei tempi. Negli anni Quaranta e Cinquanta, l’umore della moda era reazionario: il New Look di Dior, con la sua gonna vittoriana e la vita stretta, era un insolito compagno per l’arte che promuoveva l’Espressionismo Astratto, o le linee audaci e futuristiche del Modernismo di metà secolo. Nel decennio successivo, la moda segnò il passo. “L’uomo camminò sulla luna nel 1969, ma la donna lo fece nel 1965, attraverso i saloni dell’era spaziale di Courrèges, l’implacabile futurista della couture” (Moore, 2017).

Sfilata di Courrèges / da Formidable Mag

I giovani indossavano sempre di più il prêt-à-porter piuttosto che la haute couture, acquistando gli abiti disegnati da Biba, a Londra, mentre in Francia si affermarono Cacharel e Chloe. Quest’ultima, fondata da Gaby Aghion nel 1952, mise in scena le sue prime sfilate nel 1957, eventi improvvisati nei ristoranti della Rive Gauche come il Café des Flores o la Brasserie Lipp, ma precedette di un decennio la vera emergenza del prêt-à-porter parigino. È a Yves Saint Laurent che si deve l’introduzione del prêt-à-porter nell’alta moda, aprendo una boutique nel quartiere Saint-Germain di Parigi il 26 settembre 1966. Fu alla riva sinistra della città, la Rive Gauche, che Saint Laurent dedicò il titolo della nuova impresa, per sottolineare la sua posizione separata dalla haute couture e da rue Spontini, strada di lusso nel 16° arrondissement, sulla riva destra.

Prima di Saint Laurent, i couturier parigini offrivano solo linee boutique, generalmente vendute da piccoli negozi che offrivano versioni ridotte delle loro creazioni di alta moda. Mentre queste erano viste come nettamente inferiori, la Rive Gauche di Saint Laurent, al contrario, era un esercizio creativo: gli abiti erano lussuosi, non couture, certo, ma con un nuovo, raffinato glam, e furono un successo tale che alle quattro del primo giorno di apertura la boutique aveva venduto 24.000 dollari di abiti. Dove Saint Laurent si avventurava, altri lo seguivano. Cardin aveva sperimentato l’idea, e nel 1967 sia il giovane Emanuel Ungaro che Yves Saint Laurent, lanciarono le loro linee, seguiti dal futuristico Courrèges.

Sfilata Chloé, 1960 / da Archive brasserie LIPP

Intanto, gli stilisti fiorivano nel settore industriale, tra cui vanno collocate Christiane Bailly ed Emmanuelle Khanh, due ex modelle di Balenciaga. Nel 1962, al Pharamond, un ristorante di rue de la Grande-Truanderie, presentarono una collezione comune sotto l’etichetta Emma-Christie. In realtà, le due stiliste presentarono alternativamente i loro modellli. Anche se ciascuna era solo metà dell’etichetta, l’introduzione di un tipo di moda “per la strada e nella strada” era qualcosa di nuovo e importante in Francia. Ancora, il Fashion Group di Parigi organizzò una sfilata a Neuilly nel 1965. Nella prima parte, le stiliste Emmanuelle Khanh, Michèle Rosier e Christiane Bailly erano rappresentate da modelle con un look “nevrastenico”.

Seguirono le collezioni prêt-à-porter di Castillo, Jean Patou, Madeleine de Rauch e Philippe Venet, indossate da modelle professioniste, offrendo uno stereotipo di chic parigino. Due concetti inconciliabili di eleganza erano in mostra contemporaneamente, ognuno dei quali aveva lasciato metà del pubblico entusiasta e l’altra metà indignata. Nel 1966, Hebe Dorsey, editorialista di moda dell’«International Herald Tribune», invitò i tre stilisti di prêt-à-porter a New York per l’April Ball In Paris, accompagnati da Paco Rabanne, che era diventato famoso per i suoi abiti metallici. Questa volta, la sfilata fu un completo flop, e la gente cominciò a lasciare silenziosamente la stanza. Fortunatamente, l’umiliazione fu mitigata dalle congratulazioni di Diana Vreeland, allora caporedattrice di «Vogue», che il giorno dopo venne al loro hotel con tutto il suo staff per ispezionare più da vicino le loro collezioni.

Modella indossa un abito di Emmanuelle Khahn a Parigi, 1966 / © D RAYMOND/ANL/REX/SHUTTERSTOCK

Il prêt-à-porter, d’altra parte, non era considerato una parte importante delle operazioni dei couturier, ma costituiva piuttosto una fetta marginale delle loro vendite complessive. Inoltre, fino alla metà degli anni Sessanta, il prêt-à-porter rimase solo una pallida eco della haute couture. Fino a quel momento, le collezioni boutique delle case di moda venivano elencate nel calendario del prêt-à-porter femminile, tenuto dalla Fédération Française du Prêt-à-Porter Féminin, senza che si pensasse di fare le cose diversamente. Solo nel 1973, su impulso di Pierre Bergé, il calendario del prêt-à-porter dei couturier e degli stilisti entrò a far parte dello stesso sistema della Chambre Syndicale. Allo stesso tempo, il numero di case di haute couture quell’anno scese da trentanove a diciassette. La tradizionale clientela della couture aveva improvvisamente scoperto il prêt-à-porter: Saks Fifth Avenue, Bergdorf Goodman, Marshall Field, I. Magnin, e altri negozi chiusero i loro reparti su misura e usarono i loro budget d’acquisto per linee di prêt-à-porter dei loro ex fornitori d’alta moda, che erano più esclusivi e più adatti al loro modo di fare affari.

Tuttavia, per decenni, stilisti come Hubert de Givenchy, Pierre Cardin, Yves Saint Laurent ed Emanuel Ungaro considerarono la haute couture un’arte a sé stante e il prêt-à-porter qualcosa che era meglio lasciare agli specialisti. Così, Saint Laurent nel 1966, Ungaro nel 1967 e Givenchy nel 1968 firmarono contratti mondiali dando in licenza le loro linee prêt-à-porter a C. Mendès, un consorzio di produzione specializzato in prêt-à-porter di qualità. Madame Grès (nel 1957) e Raymond Barbas per Jean Patou (nel 1964) avevano già fatto questo passo con la stessa azienda. Valentino seguì l’esempio nel 1974, così come Chanel nel 1976. Secondo i termini dell’accordo, era C. Mendès che produceva e distribuiva i capi e fatturava i dettaglianti per ognuna di queste etichette, in cambio, l’etichetta riceveva un pagamento di royalty. Da parte loro, le case di moda producevano, distribuivano e vendevano i loro disegni di alta moda solo ai loro clienti individuali. Il loro commercio esclusivo su misura, regolato nel 1945, permetteva loro di perseguire fruttuosi accordi di licenza per ogni tipo di prodotto industriale.


In quel momento l’alta moda era ancora un’impresa redditizia, ed era quindi ancora essenziale salvaguardarla dalla contraffazione. I fotografi erano banditi dalle sfilate, i bozzetti venivano confiscati e il commissario di polizia veniva spesso chiamato. La Chambre Syndicale si assicurava che le date di pubblicazione della stampa fossero rigorosamente rispettate, con grande piacere dei couturier. Quando una rivista prendeva in prestito un prototipo per fotografarlo, per esempio, doveva impegnarsi per iscritto a non pubblicare la foto fino alla data specificata dal consiglio della Chambre, che corrispondeva a quando il disegno sarebbe stato messo sul mercato. Questo aiutava a garantire che eventuali imitazioni non sarebbero diventate disponibili fino a molto tempo dopo la consegna dell’originale. L’inosservanza di questa regola comportava l’incriminazione del giornalista inadempiente ed eventualmente l’esclusione della casa di moda dalla Chambre.

I clienti avevano ormai cominciato a comprare il prêt-à-porter invece dell’alta moda: la prima cliente del negozio Rive Gauche nel 1966 fu Catherine Deneuve, attrice francese e fanatica sostenitrice di Yves Saint Laurent. Comprava minigonne prêt-à-porter e chiedeva che fossero rese ancora più corte. Secondo il fotografo Chris Moore, il prêt-à-porter ha segnato il vero inizio della sua carriera e dell’idea del “fotografo da passerella” in generale. “È quello che ha davvero aperto l’intero settore alle sfilate”. Alla fine degli anni Sessanta, cominciarono a svilupparsi vere e proprie sfilate per mostrare le linee di prêt-à-porter prodotte in serie dagli stilisti. Nelle prime sfilate ad ogni modella veniva dato un numero da mostrare, come nelle sfilate haute couture, e potevano anche non avere musica, proprio per acquisire credibilità emulando le sfilate di haute couture.

Testo tratto dalla tesi di laurea magistrale di Sofia Busignani, 1892 – 2021: la sfilata di moda e i suoi cambiamenti attraverso le pagine di “Vogue Magazine”.

Bibliografia
FURY, ALEXANDER, MOORE, CHRIS, Catwalking, Laurence King, Londra, 2017
GRUMBACH, DIDIER, Fashion Show, Paris style, MFA publications, Boston, 2006
MUSÉE GALLIERA, Showtime: le défilé de mode, 3 mars – 30 juillet 2006, Paris Musées, Parigi, 2006
VREELAND, DIANA, D. V., Weidenfeld and Nicolson, Londra, 1984

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